Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, Genova, Firenze e Venezia, le potenze economiche più importanti del tempo, introdussero rispettivamente il genovino, il fiorino e il ducato. Dopo l’uscita dai “secoli bui” dell’Alto Medioevo, queste emergenti potenze ebbero a disposizione, per un notevole periodo di tempo e per i loro commerci, una quantità sufficiente di monete d’oro e d’argento già battute da altre zecche, principalmente quelle arabe e bizantine. Fra queste la moneta base era il dinar arabo, denominato negli scritti notarili del tempo “marabottino” o “massamutino”, che aveva un contenuto d’oro fino (cioè a 1000 millesimi) e un peso di circa 3.5 grammi. Ad un certo punto, però, queste monete non bastarono più e nacque così la condizione per una coniazione di monete d’oro tutta italiana e più precisamente dell’Italia Cisalpina. Fu Genova, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, a coniare una moneta d’oro equivalente a 12 denari d’argento, denominata “mezza quartarola”, a cui seguì l’“intero” o “genovino”, nel 1250. Due anni dopo Firenze introdusse il suo fiorino (vedi articolo “Fiorino d’oro”). Dall’età romana queste si presentarono come le prime coniazioni auree in Italia e in tutta l’Europa occidentale. Durante buona parte del Medioevo, infatti, venne usato l’altro metallo prezioso, l’argento, per la battitura di monete. Nonostante si registrava una larga diffusione della nuova specie aurea, però, le monete argentee non vennero mai definitivamente cancellate, dando origine al nuovo periodo storico denominato bimetallismo. Il ducato veneziano fu coniato, invece, dopo circa trent’ anni, con lo stesso peso, 3.5 grammi d’oro quasi puro, e lo stesso titolo del fiorino di Firenze. Come quest’ultimo, il suo peso, il suo valore intrinseco e il suo titolo, aveva al massimo il tre per mille d’ impurità, rimasero pressocchè invariati fino al crollo della Repubblica nel 1797, diventando l’orgoglio di Venezia e di tutti i veneziani. La tesi più accreditata fa risalire la coniazione del primo ducato al 31 ottobre 1284, sotto il dogato di Giovanni Dandolo. Si trattava di una moneta molto sottile, come del resto accadeva per tutte le moneta dell’epoca di qualsiasi metallo esse fossero, che sostituì il cosiddetto “grosso” o “matapan”, una moneta d’argento di circa 2.17 grammi in circolazione a Venezia dal 1202. Al dritto presentava S. Marco che, aureolato e con una sontuosa veste, teneva il Vangelo nella mano sinistra e che, volgendosi a destra, porgeva al doge genuflesso un’orifiamma, su cui si trovava la croce. Il doge aveva un manto ornato di pelliccia, sul capo il berretto ducale e stringeva l’asta dell’orifiamma con entrambe le mani. Al rovescio vi era Gesù Cristo in piedi, avvolto in una lunga veste: con la mano sinistra teneva il Vangelo e con la destra benediceva. Il Redentore, inoltre, ascendeva in un’ aureola ellittica cosparsa di 9 stelle, 4 a sinistra e 5 a destra, stelle che sarebbero aumentate sotto altri dogi. Per alcuni il ducato, però, deriverebbe da un duca di Ferrara, che l’avrebbe fatto battere nel VI secolo; per altri da Ruggero II di Sicilia, duca delle Puglie, che l’avrebbe voluta, nel 1110, con l’immagine del Cristo. In ogni caso i ducati presero questo nome in quanto vi era impressa la figura del doge (duca). Durante la metà del XV secolo, il valore legale del ducato fu fissato in 124 soldi di piccoli d’argento; il ducato divenne perciò una moneta di conto, alla quale fu dato un corrispondente battendo ducati d’argento. Da questo momento si chiamò “zecchino” (da Zecca) e non più ducato. Fu, infatti, sotto il dogato di Francesco Donà ( 1545 – 1553) che si trova sempre più spesso la parola “cechino”, da qui zecchino, per indicare il ducato d’oro anche nei documenti pubblici. L’ultimo doge sotto cui si ebbero i ducati fu Pietro Lando (1539 – 1545). Poi con Francesco Donà e Marcantonio Trevisan (1553 – 1554), le monete si chiamarono indifferentemente ducati o zecchini. Il primo doge, sotto il quale la moneta si chiamò, invece, pubblicamente zecchino, fu Francesco Venier (1554 – 1559). I dogi che fecero coniare ducati o zecchini furono 73 a partire da Giovanni Dandolo (1284) che fu il 48° doge e finendo con Ludovico Manin che fu il 120°. Con quest’ultimo terminò anche l’entusiasmante storia della Repubblica della Serenissima. Prima della scoperta dell’America il ducato era la principale misura delle ricchezze: d’oro purissimo e di peso costante, era un punto di riferimento per ogni valutazione. La quantità d’oro fino di cui era costituito, era quella giusta per un pagamento di media importanza, quale un abito non di lusso, una ricca cena tra amici, le grazie di una cortigiana di media beltà. Dopo il 1492, con l’afflusso d’oro che si ebbe in Europa dall’America, la quantità ottimale di metallo prezioso progressivamente si assestò su pesi maggiori: nel sei-settecento, la pistola o doblone con circa sei grammi, poi il Luigi con lo stesso peso di oro puro e la sterlina con oltre un grammo in più. Prima di tanta inflazione lo zecchino dominò incontrastato non solo in Europa ma anche in Africa ed in Asia, dove rimase poi a lungo nella tradizione e nella pratica. Era cambiato e accettato ovunque anche nei paesi non cristiani, nonostante l’immagine del Redentore, ed era il più coniato del tempo. Il 20% dell’oro mondiale, infatti, era impiegato per la sua battitura. A Ceylon era particolarmente gradito perché gli indigeni vedevano nelle figure della moneta la rappresentazione di uno dei loro mestieri più popolari: la raccolta del nettare di cocco. Chiunque era infatti capace di riconoscere la figura di un santo, mentre non c’era spiegazione per l’uomo inginocchiato davanti a lui se non immaginarlo nell’atto di prepararsi a salire la palma (la lunga asta tra i due, con in cima il vessillo o la croce). Ci sono pervenute molte monete d’oro del tempo. I ducati veneziani o zecchini, nello specifico, presentano le tracce della piega lungo una linea corrispondente al diametro. Come è noto infatti, l’oro puro è più “tenero” dell’oro legato con argento o rame, quindi, la mancanza di impurità del ducato veniva provata nella quotidianità e in base all’esperienza piegando le monete stesse e poi raddrizzandole. Ecco perché molto spesso ci capita di vedere, in televisione o al cinema, pirati che saggiano monete con procedimenti altamente “tecnologici”: mordendole. Verificano la loro tenerezza e quindi purezza… non è fame…semmai fame d’oro!!!
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